Genesi della Parola

Genesi della Parola

(A. Neher)

Avventura di Babele – La Parola smarrita

Dabar è una parola che ritorna migliaia di volte nella B. con decine di significati. Anche le traduzioni letterali devono scegliere fra l’una e l’altra delle seguenti possibilità: cosa, fatto, oggetto, parola, avvenimento, rivelazione, comandamento ecc. Quale contrasto tra questa prodigiosa unità di dabar e la dicotomia latina di res e di verbum o quella greca di logos e di ta onta.

Dabar è infatti una di quelle parole sintesi o meglio di quelle parole moniste , così frequenti in ebraico, che rispettano l’unità profonda e originale della creazione e che, con la loro esistenza e con la densità dei significati simultanei, protestano contro i dualismi e i pluralismi delle culture non bibliche e di quelle che non sono rimaste fedeli alle loro fonti bibliche primitive. Tocchiamo qui con mano attraverso un es. linguistico la linea di rottura fra giudaismo e cristianesimo, tra l’Uno che ammette il paradosso di una carne e di uno spirito, di una materia e di una parola non facenti che una cosa sola, e il Molteplice che non li tollera se non separati.

Il giudaismo ignora e rifiuta la spaccatura greco-latina, ripresa dal cristianesimo, e tale rifiuto e ripresa sono simboleggiati dall’avventura di una parola.

Impossibile tradurre in ebraico “Le parole e le cose” di Michel Foucault. Solo dabar. Le lingue nate dal latino e dal greco forniscono ampie possibilità di esprimere le differenze. Parole – cose.

Claude Duret dice che la lingua ebraica – “unica lingua superstite di Babele, porta in sé un frammento del sapere silenzioso delle proprietà immobili degli esseri.

Dabar analizzato all’interno della stessa cultura ebraica.

– Una prima constatazione si impone, sorprendente per chi crede di sapere che in principio era il Verbum e particolarmente istruttiva per chi tenta di individuare il silenzio nella B. La parola Dabar, Logos in greco, Verbum latino, appare per la prima volta nella B. in Gn 11, 1

Come! La B. non è la parola di Dio? Dio non ha parlato? Non ha creato? E durante i primi 10 cap. Gn, l’uomo a sua volta non ha parlato, non ha prodotto?

Dobbiamo arrenderci all’evidenza: Dio ha parlato, certo, ma non “parole”, – debarim -; ha creato, ma non cose, – debarim -: Rispetto a Dabar, rispetto a questo termine che d’ora in poi designerà per eccellenza la Parola, il Logos, il Verbo, ma anche la Cosa, l’Oggetto, l’Avvenimento, rispetto a questo termine Dabar, grazie al quale d’ora in poi la Parola, il Mondo e la Storia potranno essere enunciati con maiuscole e nell’autorità piena del loro significato, nulla è ancora esistito fino a questo momento o, perlomeno, tutto questo è apparso solo in superficie attraverso espressioni ausiliarie e, al limite, insignificanti. Tutto si svolge come se la struttura dei primi 10 cap. Gn non fosse fatta con quel materiale che la lingua umana chiamerà, a partire solo da questo momento: cosa, oggetto; come se la vita di questi 10 capitoli non fosse attraversata da quel movimento che gli uomini chiameranno, soltanto a partire da questo momento Avvenimento, Storia. Tutto si svolge come se nessuna parola fosse stata articolata durante questi primi 10 cap. della Gn, – come se questi 10 cap. della Genesi costituissero un’introduzione di silenzio alla parola che soltanto adesso stava per emergere.

La parola occlusa

Ma ecco che a questa sorpresa se ne aggiunge un’altra, + sconvolgente ancora, purché tuttavia si voglia seguire il midrash, così superbamente in agguato per scoprire, in una situazione biblica critica, il tema dominante.

Quando infatti il silenzio è rotto, quando dopo aver bordeggiato per 10 cap., mutuando le maschere e gli abiti + diversi, le cose – parole – avvenimenti si svelano finalmente e accettano per farsi riconoscere l’abito linguistico dei Debarim, questo termine viene immediatamente singolarizzato dall’attributo ‘ahadim che una lettura superficiale fanno certo interpretare come quel fattore di unificazione, quel legame interno che consente di ritrovare sotto la molteplicità dei significati di dabar la radice unica e indivisibile, valida per tutti i significati (‘ehad) = uno, ma che la lettura del midrash illumina di una luce totalmente nuova: debarim ‘ahadim. Di qui la sorprendente lezione che i debarim era chiusi.

Tutto ciò che era stato detto e fatto, vissuto precedentemente (Gen 1 -10) non era stato che balbettio, abbozzo, tentativo embrionale però sembrava aprirsi in vista della Parola. Al posto di un termine schiuso emerge un termine occluso maturo, ma di una maturità sazia, tutta tesa verso l’autogestione.

L’evoluzione che aveva fino allora condotto la terra, rivelava finalmente la sua identità. Se i vocaboli non erano riusciti fino allora ad articolarsi in parola, se le cose non avevano potuto scolpirsi in oggetto, se i fatti non avevano potuto organizzarsi in avvenimenti, se l’accesso de dabar alla realtà era rimasto un semplice abbozzo e si risolveva, in fin dei conti, con un fallimento, ciò significava che, in fondo al suo essere, la terra era bloccata.

Infatti i primi 10 cap. Gn costituiscono un vasto fallimento della Parola, perché la parola non giunge a maturarsi fino a quel suo frutto naturale che è il dialogo, sia che si tratti del dialogo verticale che collega l’uomo a Dio, o sia che si tratti del dialogo orizzontale con cui gli uomini comunicano fra di loro. Da Adamo all’XI° cap. della Gn – che è quello della Torre di Babele – la parola non viene enunciata se non per smarrirsi, il dialogo non viene annodato se non per perdersi. Cerchiamo di individuare le tappe principali di questo fallimento, le fasi + drammatiche di questo

Dialogo abortito

Monologhi paralleli: Adamo ed Eva.

Iniziamo con il dialogo orizzontale le cui implicazioni sono meno complesse. Restiamo subito colpiti da una costatazione molto semplice ma sorprendente: Adamo-Eva, la prima coppia umana, lo sposo e la sposa, ignorano il mutuo dialogo; pur parlando molto, non si parlano mai; ognuno parla per sé. Gn 2, 23, l’occasione del dialogo sembra offrirsi da sé. Eva è stata appena creata, Adamo destatosi dal suo sonno l’accoglie e parla – ma parla di Eva, non parla a Eva; il suo è un monologo che oscilla, nei suoi enunciati, tra la prima e la terza persona, ignorando la seconda, il tu e l’interpellazione i quali soli fondano il dialogo.

Quanto a Eva, anch’essa si prodiga in monologhi al momento della nascita di Caino 4,1 e, successivamente durante quella di Set 4,25; essa conosce persino la tecnica del dialogo (la tecnica solo, non l’essenza, poiché non risponde con la seconda persona, con l’interpellazione all’interpellazione del suo interlocutore) ma ricorre a essa solo di fronte al serpente 3,2! Eva riserva al serpente le risorse per lo meno formali di un dialogo che rifiuta a suo marito.

Un monologo fratricida: Caino

Questo angoscioso silenzio orizzontale tra la prima coppia di sposi si ripete + angoscioso ancora, non appena incontriamo la prima coppia di fratelli, caino e Abele. Non solo il dialogo orizzontale non si stabilisce realmente fra i fratelli, ma i tentativi fatti per instaurarlo danno luogo a una specie parodia del dialogo e si concludono con l’omicidio. Se infatti Abele rimane muto nel corso di tutta la sua drammatica esistenza, Caino invece parla molto, ma solo in verticale, nel dialogo cioè che Dio insatura con lui e di cui esamineremo tra poco i dettagli.

Nella direzione orizzontale, è vero, Caino prende l’iniziativa di un dialogo (4,8), parla al fratello, ma questo dialogo non ha contenuto, è senza sostanza, si riduce all’enunciato bruto del fatto del dialogo, senza che nulla venga precisato circa il suo farsi.

“Caino disse al suo fratello Abele”. Ci aspettiamo qui 2 punti aperte virgolette. Rimaniamo frustrati. “Caino disse ad Abele”. Punto e a capo. E avvenne che “mentre erano in campagna…..” Tutto si svolge come se l’obliterazione del dialogo fosse l’origine dell’omicidio. Proprio perché i fratelli come i loro genitori erano incapaci di inventare il dialogo, qc d’altro viene da essi inventato, qc che costituisce la mancanza della parola: la morte.

La quale appare qui esplicitamente, per la prima volta, nel racconto biblico.

Nascita della demagogia.

Se Lamech il setita (5,29) a suo figlio Noè (9, 26-27) si rintanano in monologhi sull’es. di Adamo e Eva, lo stesso non si può dire di Lamech il cainita e degli uomini di Babele (11, 3.4) con i quali si inaugura il dialogo, un dialogo tuttavia che assume una forma assai particolare, poiché Lamech non si rivolge col tu alla moglie, ma interpella al plurale le sue 2 mogli e poiché, analogamente, i costruttori anonimi della torre di Babele si esprimono al plurale dell’imperativo: “Venite, facciamoci mattoni…..costruiamoci una città”, ci troviamo qui alle fonti del dialogo demagogico, della parola rivolta dall’individuo alla collettività, alla massa, le cui forme interiori sono la propaganda, l’uniformizzazione, il lavaggio del cervello attraverso le 2 mogli di Lamech non è la poligamia che si affaccia all’orizzonte della coscienza umana ma, fatto molto + grave, lo spossessamento dell’individuo, il trattamento uniforme di due coscienze distinte e irripetibili, come se si potesse rivolgere loro una sola e identica parola, valida indistintamente per tutti. Quanto all’appello dei costruttori di Babele – lo vedremo + avanti – esso ha tutta la parvenza di un manifesto elettorale, amministrativo o pubblicitario: è un ordine di mobilitazione che gli uomini di quella generazione hanno affisso un giorno sui muri di Sannaar. Non restava loro che leggere o ascoltare e obbedire.

Né Amen né grazie

Se al limite il fallimento del dialogo orizzontale si confonde con il fallimento della responsabilità il fatto è ancora + tangibile nel dialogo verticale che fallisce anch’esso nei primi 10 cap. Gn per difetto di responsabilità.

Infatti fin dalla creazione di Adamo, Dio si rivolge all’uomo, lo interpella con il tu, e non si stanca di rivolgere la parola alle staffette umane che si susseguono nel racconto biblico dopo Adamo, – Eva, Caino, Noè. Ma nell’attesa di una risposta – di una risposta autentica che sia il frutto di quel potere di risposta che è la responsabilità umana la quale sola fonda il vero dialogo – Dio come contropartita non riceve che il silenzio o l’alibi, questi 2 segni “negativi” del dialogo e della responsabilità, poiché il silenzio soffoca la parola e l’alibi asfissia la responsabilità.

In primo luogo il silenzio: esso è particolarmente impressionante nei primi cap. Gn dove i messaggi divini, pur numerosi, non riescono a ridestare l’interesse di Adamo, loro destinatario.

Se in precedenza, quando si era rivolto agli animali, Dio era ricorso allo stile indiretto, dello stile diretto ed esplicito fa uso invece quando gratifica l’uomo e la donna di una particolare benedizione: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” 1, 28. Questa benedizione come viene precisata dal testo, Dio l’ha rivolta a loro, e l’ha espressa in un dire che evidentemente attende una risposta, non fosse che la risposta dell’Amen, quell’Amen che la tradizione ebraica inventerà + tardi come eco ad ogni benedizione. Ma Adamo e Eva non sanno dire neppure Amen, nulla: la benedizione divina non li tocca nelle fibre reali del loro essere, non si sentono ad essa interessati: rimane esteriore alle loro persone, anche se ne raccolgono il beneficio. La benedizione è affare di Dio e non degli uomini.

Con pazienza Dio prosegue l’esperimento. Non avendo raccolto alcuna eco alla sua benedizione, riprende la parola (v.29) per spiegare davanti alla coppia umana l’infinito spettacolo della vegetazione terrestre e per offrirgliela come nutrimento.

Nuovo silenzio di Adamo ed Eva che non sanno neppure sciogliere le labbra per pronunciare un brevissimo salmo, per dire un breve grazie, todà rabbà, il benedicite che la tradizione ebraica una volta ancora inventerà + tardi, per farne il coronamento di ogni umile cena umana.

Un po’ più avanti, per la terza volta, Dio avvia il dialogo. Questa volta non si tratta + di una benedizione, ma di un comando, di una legge: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero che sta in mezzo al giardino tu non mangerai” 2,16. Adamo ascolta, distratto o reticente: è chiaro che i suoi pensieri sono altrove. A guisa di eco alla legge, non sa formulare nulla, non si dirà nulla. Non è lui che inventa l’Eccomi! (hinneni) che Abramo, Mosè, il popolo ebraico sapranno annunciare per entrare con dio nel dialogo della (mison) e della Torà. La legge non tocca Adamo nelle fibre reali del suo essere + che non abbiano fatto il dono e la benedizione. Anch’essa è affare di dio e non dell’uomo.

Per majorem dei gloriam.

Stesso silenzio di caino durante la prima apostrofe divina (4, 6-7) che pure concerne proprio lui, essendo stato direttamente interpellato in sec. persona: “4, 7”. L’ultima parte del discorso divino non è né limpido, né chiaro. Al contrario. L’articolazione della frase dà adito a confusione e la tradizione ebraica classifica questo versetto 4,7 tra i 5 vv. di cui è impossibile dirimere il significato. Di fronte a questa ambiguità quale avrebbe potuto essere, quale avrebbe dovuto essere la reazione dell’uomo Caino interpellato da Dio?

Probabilmente quella domanda di rimando che del resto Caino inventerà un po’ + tardi dopo l’uccisione di Abele (v.9 “sono forse il guardiano di tuo (mio?) fratello?”. v. 13 “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono?”, ma in tutt’altro contesto psicologico e morale che conferirà allora a quella domanda di rimando la parvenza di una rivolta. Qui si tratta semplicemente di interrogare Dio sul contenuto oscuro della sua parola, di chiedergli di farsi lui stesso esegeta della sua parola, di avere sufficiente umiltà e pazienza per attendere che egli chiarisse e definisse il carattere vago del suo discorso.

Ora Caino procede attraverso 2 tappe, contrarie tanto l’una quanto l’altra a quelle che normalmente si sarebbe n diritto di aspettare. All’interpellanza divina, all’interlocuzione verticale, egli oppone il silenzio, ma, con un movimento di rotazione, inserisce l’interlocuzione divina nella dimensione orizzontale, come se Dio non l’avesse interpellato perché gli risponda, perché risponda a Lui, ma perché al posto di Dio scelga il fratello come destinatario della sua risposta: v 8 “Caino disse al fratello Abele”. Che cosa disse Caino al fratello? Poco fa, considerando il versetto in se stesso, abbiamo potuto pensare che la parola orizzontale di Caino fosse vuota di ogni contenuto e che fosse proprio questo vuoto ad aver chiamato la morte. Adesso collegando il v. 8 a quelli che lo precedono immediatamente, si può supporre che ciò che Caino dice al fratello siano le parole stese di Dio nella loro terribile ambiguità. Tali parole erano destinate solo a lui, in dialogo verticale. Caino le trasmette, le interpreta, decide del loro significato, in dialogo orizzontale. A mio avviso, Caino si presenta qui come il primo uomo religioso che si attribuisce il magistero della parola di Dio e + questa parola è oscura com’è qui il caso, + il desiderio e subito dopo l’ostinazione che si mette nel chiarire, nel decidere, nel dirimere si fanno appassionati, e, + anche, com’è di nuovo qui il caso, questa passione ha tutte le probabilità di aprirsi e di portare alla violenza: “Caino portò la mano verso il fratello e lo uccise…”, e lo uccise in nome stesso della parola divina di cui si credeva l’interprete esclusivo ed assoluto, ad majorem Dei gloriam.

All’orizzonte di questi versetti che prolungano il fratricio fin nei dedali della storia, si profilano i roghi dell’inquisizione. Il primo è stato acceso da Caino, nel momento in cui proiettava nell’orizzonte una parola alla quale, in verticale, non aveva opposto che il silenzio.

Il silenzio del Vicario: Noè

Il terzo momento del silenzio verticale è il + evidente e insieme il + scandaloso: comprende i cap. 6 -10 Gn, i cap. cioè del diluvio, dell’apocalisse e della redenzione di un universo il cui vicario umano è l’individuo Noè, fiancheggiato dai membri + stretti della sua famiglia. Ora questo vicario dell’intera umanità, che entra nei flutti del cataclisma e ne scampa, questo vicario interpellato da Dio con apostrofe diretta in ognuna delle articolazioni della sua poetica avventura

(6, 13 – 21: annuncio catastrofe, costruz. Arca

7, 1 – 4: ultime disposiz.; conto rovescia

8, 15 – 17: ordine dell’Esodo

9, 1 – 7: benedizione e nuova legge

9, 8 – 17: alleanza arcobaleno.

Non trova una risposta, una sola parola per rispondere a queste successive interpellazioni. Noè obbedisce e sacrifica a Dio, – ma Noè non parla a Dio. In Noè l’umanità è diventata verticalmente muta.

Questi cap. del diluvio costituiscono la porta chiusa del dialogo verticale. Invano Dio si sfibra a parlare: dall’uomo non raccoglie né risposta, né eco, e neppure l’alibi che prima di Noè, Adamo, Caino avevano perlomeno saputo inventare.

Infatti, il problema di Adamo non era né la benedizione, né il dono, né la legge con i loro imperativi generosi e impellenti, il problema di Adamo è la domanda che con il suo aggancio interrogativo sa afferrare la coscienza dell’uomo nel suo punto sensibile.

Già è a una domanda del serpente che Eva sa dare una risposta, l’ ‘ayyekkà?, “il dove sei” del 3,9 Gn che apre l’essere di Adamo alla risposta. Solo che tale risposta invece che scaturire dalle fonti del potere – di – risposta, intendo dire dalle fonti della responsabilità, si flette in quel contrario della responsabilità costituito dall’alibi.

Primo giorno mascherato: Dove sei?

Dio è costretto a indossare una maschera, ad agire come se “la sua provvidenza non abbracciasse i cieli e la terra”, come se qc o qualcuno nel cosmo da lui creato potesse sfuggire alla sua vigilanza e al suo sguardo, come se avesse perduto le tracce dell’uomo, dissolto in qualche parte dell’universo. Con ciò Dio entra evidentemente nel gioco dell’uomo, deve “giocare” a non vedere Adamo e accettare, nel gioco immaginario di Adamo, un ruolo simmetrico a quello di Adamo stesso.

Poiché anche Adamo ha indossato una maschera: si è nascosto. E davanti all’appello divino “Dove sei?” la sua prima reazione ha dovuto essere il riso, segno vincitore della sua libertà. Come! Dice ridendo Adamo, il creatore non sa + dov’è la sua creatura? Come un padre angosciato, egli cerca il figlio che crede perduto, smarrito, sbranato bestie selvatiche, forse suicidato. Presto, ride Adamo, Dio porrà alle mie calcagna la polizia del giardino, i detectives e i cani pastori! E se rimanessi rannicchiato nel mio nascondiglio, senza rispondere, tanto “per giocare”, per vedere quanto durerà la commedia, quante volte Dio passerà e ripasserà ancora vicinissimo a me senza riconoscermi? Oppure se uscissi candidamente dal mio nascondiglio lanciandomi come un figlio prodigio fra le braccia del padre, opponendo al suo ansioso “dove sei?” il mio ingenuo e tranquillizzante: Ma eccomi!

L’essere di Adamo ha dovuto oscillare fra due opzioni. Alla fine non sceglie né l’una né l’altra di queste possibilità estreme. Si decide per una soluzione di mezzo, intermediaria fra il rifiuto e l’innocenza della risposta: sceglie di mentire, dichiarando che si è nascosto perché aveva paura e insinuando che, anche adesso, si sente spaurito dalla voce grossa di Dio.

Questa menzogna della “paura davanti a Dio” è rimasta una delle invenzioni + fertili dell’uomo.

Una volta scaturita dal cervello di Adamo, non ha cessato di guadagnare in consistenza e in importanza, di condensarsi in teologie e sistemi. Con questa menzogna le religioni dell’umanità intera hanno pavimentato le loro strade regali: vi camminano ancora sopra, costellandole con l’apparato del “terrore”, diversificato nelle forme. Strada regale aperta dalla menzogna di Adamo, strada regale dell’alibi che Dio stesso non è più riuscito a smantellare e che porta direttamente all’alibi di Caino, autentico vicolo cieco del dialogo verticale.

Primo gioco allo scoperto. Dov’è tuo fratello?

Infatti, (cfr sopra) la parola verticale che Caino non ha inventato al v.8 la inventa al v 9 del cap.4 Gn. Ma la risposta di Caino è una domanda – di – rimando: “Sono forse io….”. Il guardiano di mio fratello non sei forse tu, augusto inquisitore, che assisti impassibile alla nostra lite, come Cesare al gioco dei gladiatori, e che osi poi rendermi conto del gesto omicida che proprio tu, solamente tu, avresti potuto evitare ordinando di fermare il gioco prima che precipitasse in dramma? E’ lo stesso tono inquisitore e cinicamente ironico lettura ebraica v.13 “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono?”.

Come, tu sostieni il cielo e la terra e tutti i suoi eserciti, o maestoso creatore, e non puoi sostenere, non puoi perdonare…

Caino – l’alibi della rivolta

Adamo – “ “ menzogna.

Con me il diluvio.

Ma quali conti può rendere Dio a Noè il cui alibi non è né di menzogna né di rivolta, ma di inqualificabile ignavia? Noè sembra attraversare il cataclisma sbadigliando, tanto tutta quella vicenda pare annoiarlo e disturbarlo, unicamente perché turba in qualche modo il tram – tram della sua vita quotidiana. Che la tua volontà sia fatta, o Signore – sembra pensare ma non ha neppure l’energia né la franchezza o il coraggio di esplicitare il suo pensiero. Come un automa sottomesso e neutrale, fa di tutta la sua persona un alibi, scaricando la responsabilità della vicenda sulle spalle di Dio – e che tutto si risolva al + presto e non se ne parli +. Il mondo sta per rovinare? Lo si vedrà. Non è affar mio ma di Dio. Con me il diluvio: La porta chiusa del dialogo verticale edificata da Noè è il simbolo dell’egocentrismo indifferente a tutto ciò che non è l’Io, e pronto ad accompagnare questo Io fino all’inferno.

Così sul limitare del XI cap. Gn la parola era bloccata. Una fitta e tenace rete di inibizione e di incurvature frenava e inceppava la libera circolazione della parola attraverso le arterie umane.

Questa pesantezza organica aveva spinto la terra al diluvio. Ora, all’indomani della catastrofe evitata di misura, la terra e i suoi abitanti superstiti avevano trovato la loro autentica inerzia. Lo stesso segno dell’alleanza, l’arcobaleno, invece di slanciarsi dalle radici della terra per offrirsi al cielo, non incurvava forse il suo arco verso gli orizzonti della terra e non la riserrava in una morsa senza scappatoie? L’arco non simboleggiava forse, in ognuna delle sue apparizioni, che la terra e gli uomini erano chiusi entro limiti che li rinviavano su se stessi? La terra degli uomini non era forse un universo chiuso?

Come in una grande sfida, “la terra tutta”, e l’umanità che essa portava, si irrigidì allora nei suoi universi sigillati e inventò, per designare le sue componenti, cioè la sua Parola, i suoi oggetti, i suoi avvenimenti, il termine Dabar, ma ognuno di questi dabar era un dabar chiuso. La terra era tutto un conglomerato da dabarim chiusi. All’interno delle sue barriere, chiusa su se stessa, essa realizzava finalmente il suo essere profondo.

Una terza dimensione

La prima particolarità del suo essere era di non possedere che una sola ‘sapà, espressione che non bisogna qui intendere, al punto in cui siamo, nel senso di lingua, ma nella sua portata etimologica che è quella di bordo, di limite, di frontiera. Il che significa esplicitare l’aspetto concavo e centripeto nella struttura post-diluviana della terra. Essa non possedeva che una sola frontiera, un cerchio chiuso. In nessun punto dell’orizzonte si aprivano varchi per quanto angusti, né erano predisposti sblocchi su altri orizzonti, per quanto vicini. A partire dal limite circolare, posto come un anello attorno alla terra: la terra intera era solo una frontiera, un insieme di elementi chiusi.

Queste incurvature tendevano spontaneamente verso un “centro, il cui disegno geometrico è anch’esso precisato dal testo con notevole chiarezza: gli uomini scendono verso il punto + basso della terra, la valle corrosa e profonda, e a partire da questo polo delle profondità, concepiscono il progetto di edificare una torre la cui cima tocchi il cielo: questa torre di Babele sarebbe stata come l’asse che avrebbe collegati fra loro i poli verticali e attorno al quale l’insieme del sistema sarebbe stato cetrato o meglio concentrato.

E’ proprio la concentrazione che Babele evoca come connotazione sociale, politica morale che questo termine ha assunto nel XX sec.: l’universo di Babele è un universo concentrazionistico. L’origine cfr gli elementi chiusi. Una seconda genesi stava per aver luogo: il termine resit v.10 cap.9 ci mette sull’avviso. Nel contesto di Nimrod, questo termine che appare qui per la rpima volta che è servito come termine inaugurale B., questo termine resit che fa eco a beresit, è come una sfida lanciata dall’uomo a Dio. Babele non stava forse per soppiantare il cielo-e-la terra?

Per creare questo regno Nimrod + compagni, come pietra di fondazione hanno inventato un termine inedito e terribile (Dabar), flettendolo sulle proprie chiusure. Delle infinite possibilità di contatto, di apertura, comunicazione che l’universo creato da Dio aveva manifestato fino allora essi non avevano ritenuto che il contenuto. Colto l’orifizio per murarne le acque.

Per opporsi a Dio, per sottolineare la loro invalicabile distanza rispetto a colui che fu all’origine (11,2 “quando si separarono dall’oriente…”, gli uomini non andarono a cercare in se stessi le risorse di un’esistenza autonoma. E’ al mondo che strapparono la chiave della loro autonomia, scoprendo (11.2 “e scoprirono”) una terza dimensione fra l’uomo e Dio, la dimensione della cosa chiusa.

Sotto il segno dell’avere.

Questa cosa possiede come prima sorprendente proprietà quella di non fare che un tutto uno con la parola – Dabar -, identificandosi con essa fino al punto di soffocarla. Nel mondo di Babele c’è come un’asfissia della parola, perché i vocaboli vi si scambiano indifferentemente, simili gli uni agli altri, come monete valutate per il loro peso e non per la loro qualità. La parola è diventata unità di economia, non di un’economia qualitativa che ne conosce il prezzo e vuole pronunciarla solo quando ne vale la pena, ma di un’economia quantitativa che distribuisce le parole in proporzione della loro efficacia e delle necessità meccaniche del loro impiego. La parola – cosa di Babele è totalmente sotto il segno dell’avere: è quanto gli uomini di Babele intendono sottolineare fin dal primo vocabolo che esce dalla loro bocca – habà v.3 termine della possessione e dell’avere che ripeteranno al v.4, senza che tale vocabolo abbia apparente giustificazione, serve da chiave alle operazioni fondamentali segnalate in questi 2 vv. che costituiscono il contributo originale e irreversibile della generazione di Babele alla storia della umanità: la conversione della natura all’artificio (v.3): la pietra brutta è trasformata in mattone e l’argilla naturale in malta e la fondazione della società concentrazionaria (v.4 la città e la torre chiuse in se stesse).

Quest’ultima operazione è la + spettacolare e ha costituito l’oggetto di immense analisi. Il processo con cui la concentrazione imbavaglia la parola umana è fin troppo noto. Porta a ridurre l’uomo a una cosa, a sostituire il pensiero dell’uomo con la cosa in quanto pensiero pensante. Nell’universo delle cose concentrazionarie, l’uomo non parla + perché ogni sua parola è parlata per lui, prima di lui, attorno a lui. Il sì impersonale, lava, poi inonda il cervello del lui, le cui reazioni passive non possono + che ripetere o riecheggiare parole ammesse da tutti, indiscusse, indiscutibili.

L’invenzione concentrazionaria non è nello spirito umano, ma nella cosa stessa, la quale secerne il proprio sistema, organizza le proprie leggi, ordina il suo linguaggio cui il mondo intero è costretto a piegarsi, e che non ha nessuna comune misura con i linguaggi dei mondi esterni. La parola concentrazionaria è veramente piegata su se stessa. Brutalmente intellegibile all’interno proprio sistema, essa è, per l’uomo esterno a tale sistema, di un altro pianeta. All’interno del regno di Babele, la trasmissione avveniva senza stridori né esitazioni, e le parole mancate erano tanto rare quanto rari erano mattoni rotti. Ogni dabar veniva maneggiato passando di mano in mano come una cosa.

Immortalità del mattone: l’arte e l’artificio.

Ma la prima delle operazioni inventate dagli uomini di Babele – la conversione della natura all’artificio – ha provocato qc. Di ancor + grave che il murare la parola umana nella materia. Con il tocco di pollice che la rende artificiale – e artistica – questa, la materia cioè, viene improvvisamente rivestita di una sorta di attrattiva magnetica: è adornata da un più rispetto all’uomo che aspira a diventarle simile senza tuttavia riuscirvi. Nessun uomo raggiungerà mai l’industriosa precisione della macchina, l’altera plasticità della statua. All’interno delle cose artificiali e artistiche opera una forza davanti alla quale l’uomo non può che inchinarsi. E tale forza è silenziosa. Nessuna eloquenza umana può rivaleggiare con il silenzio ostinato o maestoso di una macchina o di un’opera d’arte. Il mattone inserito nel posto che è il suo nella sistemazione della piramide, garantisce una duplice funzione, entrambe meravigliose: sostiene l’edificio in un punto geometrico preciso e insostituibile e contribuisce al suo equilibrio estetico. Si capisce allora il sorprendente midrash secondo il quale quando un uomo cadeva dall’impalcatura di Babele nessuno se ne dava pensiero, mentre invece la rottura di un mattone provocava lutti e pianti. Questo midrash non pone soltanto l’accento sul fenomeno di riduzione dell’essere umano, caratteristica del sistema concentrazionistico, e sulla valorizzazione del prodotto rispetto all’uomo produttore, del sistema economico totalitario. L’alone sentimentale con cui il midrash avvolge l’episodio tipo deve consentire di evocare la tragedia dell’abdicazione dell’uomo davanti all’art(ificio). Il lavoro silenzioso ed efficace del mattone, la presenza immobile dell’opera d’arte nelle dimensioni del suo tempo e del suo spazio, esercitano sull’uomo una specie di tentazione, invitandolo a diventare simile a questa cosa delle armonie perfette e apparentemente indistruttibili. Le superbe intuizioni della cibernetica hanno recentemente aperto all’uomo il regno degli elaboratori + duttili e + sicuri di sé di quanto lo sia il cervello umano. Queste macchine non presentano all’uomo l’immagine umiliante dei cervelli lavati e laminati dal regime autoritario , quanto piuttosto costituiscono per lui il simbolo stimolate di una infinità di programmazioni e sfumature, infinità acquisita al prezzo di programmazioni o sfumature, infinità acquisita al prezzo di una perfezione che solo la cosa sembra poter realizzare. Ma c’era già qualche timida intuizione di questa perfezione dalle mille duttilità nei gesti misurati, diretti, sempre efficaci del Golem, in cui dobbiamo vedere l’antenato dell’elaboratore. Al pari di esso il Golem, il Golem non è soltanto uno schiavo bensì un capolavoro: non svolge o spirito umano verso le regioni basse della sua condizione, nelle quali corre il rischio di non essere che un sotto uomo, ma verso gli orizzonti di un ideale mediante il quale andrebbe oltre se stesso per diventare il superuomo che egli non cessa di sognare nel corso di tutta la sua avventura. E i passi agili e silenziosi del Golem, come pure gli ingranaggi del cervello elettronico, riassumono il fascino magico del silenzio artificiale sull’homo loquens: le parole che quest’ultimo è costretto a dispensare sono l’immagine stessa del proprio fallimento, dello spreco dei suoi sforzi, che a nulla portano se non, in fin dei conti a quella morte così banale nella sua battuta d’arresto come lo è la successione degli arresti, degli ostacoli, delle regressioni di cui è tessuta la stoffa della vita umana. La morte di un mattone invece è sorprendente, tragica e scandalosa perché spezza di colpo ciò che il silenzio del mattone annunciava in anticipo come un’acquisizione indistruttibile, come l’avere per eccellenza del dabar chiuso, intendo dire l’immortalità. La morte della parola parlata è nell’ordine organico della vita, con i suoi alti e bassi, le sue primavere e i suoi autunni le sue genesi e le sue apocalissi, mentre la morte della parola silenziosa, della cosa – vocabolo è un incidente gratuito e incomparabile. Di fronte alla morte di un uomo si può aggiornare la seduta ed andare oltre. Ma la morte di un mattone non ha seguito: di fronte a essa non si può che piangere e portare il lutto immortale di un disordine irreparabile.

Cime e abissi: eroi e scimmie

L’universo di Babele = parola chiusa nella cosa. Cfr. Gn 11, 1-4 = prima anta del dittico del racconto della Torre di Babele.

Dal secondo dittico vv. 5-9 si attende la soluzione di questo universo, e si considera, infatti, troppo speso l’intervento divino riferito in questi versetti come una specie di fatale colpo di freno dato a Babele. Non si tratterebbe allora di una soluzione, ma di una dissoluzione, di un autentico colpo di forza con cui Dio porrebbe fine all’iniziativa umana.

Di questa interpretazione che presenta la dislocazione linguistica e geografica come una sanzione del peccato di Babele, gli esegeti ebraici hanno riconosciuto ben presto il carattere superficiale. Già il Talmud osserva che se la costruzione della Torre è rimasta incompiuta, almeno un terzo di essa è sopravvissuta od esiste ancora attualmente. E Isaac Abranavel cerca di scrutare il contenuto di questo terzo. Con una perspicacia che gli viene dal Rinascimento di cui è contemporaneo, in anticipo di diversi secoli sul suo tempo, Abranavel definisce nel suo commento Gn 11, i temi permanenti di ciò che sussiste di Babele nell’umanità. Come avverte, l’intervento divino non ha infatti arrestato nulla; ha diretto e orientato e soprattutto ha conferito all’iniziativa umana un’autonomia irreversibile.

Infatti l’autonomia dell’uomo, il suo potere creatore e prometeico che Dio intuisce in certo qual modo nell’impresa di Babele: v.6 parola che appare a conclusione cap.4 + introduz. e conclusione diluvio 6, 1-9 ,20. Ora questa radice è quella dell’ambiguità umana. Designando simultaneamente la creazione e la profanazione, sottolinea perfettamente il doppio potere, inventivo e insieme distruttore dell’uomo. Ogni tappa della creazione umana è una profanazione: può essere conquistata solo al prezzo di una regressione rispetto a Dio, di una rottura con l’assoluto, fosse, pure – tale assoluto – l’uomo stesso o l’immagine ideale che l’uomo può farsi di se stesso.

L’invenzione crea e al tempo stesso distrugge, pone una dimensione dove tutto può simultaneamente svilupparsi e annientarsi. Il fuoco prometeico, l’utensile, la tecnica, la scienza, l’arte portano l’uomo, attraverso un ritmo che gli viene dalle fonti intime del suo essere, in punti dello spazio e del tempo che sono tutti, senza eccezione, cime e abissi insieme. Nella sua ascensione inventiva, l’uomo opera passo passo alla sua caduta come, inversamente, i burroni che scavalca sono anche rampe di lancio.

Così, quando l’indomani del dramma di Caino e Abele, l’uomo nuovo, discendente di Set e di Enos, inventò di chiamare (le cose e gli uomini) col nome divino (4,26, interpretazione di Rashi e del Midrash) queste cose e questi uomini adorni del nome divino – questi idoli – risultarono le une dei semidei, gli altri dei sottouomini. Con l’effetto organico dell’intervento, l’uomo era giunto simultaneamente al suo superamento e alla sua decadenza: allora erano nati gli eroi e le scimmie e l’uomo stesso sarebbe stato d’ora in poi teso e lacerato tra questi poli estremi e contraddittori della sua condizione, tra il sublime e il ridicolo.

Sono proprio questi eroi e queste scimmie, che cominciano a pullulare sul limitare del secolo del diluvio (6,1). Nell’impulso generatore che fa emergere dalle masse umane le donne belle, si intuisce un rinascimento dalle forme sublimi, una mescolanza preziosa tra semidei (v.2) e l’elite della bellezza pura. Ora, i sottoesseri decadenti (v.4) sono anch’essi un frutto di questo impulso generatore. Anch’essi sono sulla terra con la loro massiccia pesantezza, schiacciando sotto i loro colpi le donne che sono solo, per essi, oggetti del loro istinto sessuale, incrociando e contaminando le unioni dei semidei con le semidee. Ciò che chiedeva di essere spirito divino di equilibrio nell’uomo, armonia e bellezza, non era + che un inferno carnale (v.3 antitesi fra male e basar). Eccoli i vostri eroi, i vostri semidei, i vostri Prometei, quelli che erano andati alla conquista del nome divino, sembra esclamare ironicamente la fine del v.4 . Il Rinascimento intravisto in un lampo di forme pure e ideali si era trasmutato in un bordello di soldatacci e di lanzichenecchi, in una guerra di…120 anni (v.3), il cui esito finale è la catastrofe del genere umano.

Il vino scioglie la lingua dell’uomo

Catastrofe di cui l’unico superstite fu, con la sua famiglia, l’uomo Noè. Abbiamo già capito, dal modo con cui dialoga, che Noè non è un super-uomo. Noè non è neppure un sotto-uomo. E’ diremmo volentieri un buon uomo, anche se la sua bonomia possiede un potenziale di ambiguità che il midrash si compiace di sottolineare fin dalla presentazione del personaggio. Noè ci viene detto (v.9), era un giusto, perfetto “tra i suoi contemporanei”: affermazione che alcuni interpretano come un elogio (era un super-giusto poiché il clima di immoralità prediluviana non l’aveva influenzato) e altri con biasimo (se fosse vissuto al tempo di Abramo, non avrebbe assolutamente contato nulla. In questa aura di ambiguità egli passa attraverso il diluvio, fino alla sua conclusione, fino a quel momento del v.20 del IX° cap. dove, dopo essere rimasto nascosto nell’arca ed essersi fatto piccolissimo sotto la pioggia del diluvio, il buon-uomo Noè finalmente si rialza, si ricorda di essere uomo e inventa. Inventa la vigna, il che è una cosa eccellente, se non che invece di bere la coppa di vino con un gesto da operaio laborioso o da sacerdote officiante,si ubriaca. Fatale conseguenza dell’ambiguità inventiva. Noè avrebbe potuto essere il primo vignaiolo, oppure, prima di Melchisedeck, il primo officiante sacerdote del Kiddush o della Messa: è diventato invece il primo ubriacone. Sì, finalmente parla, la sua lingua si scioglie ma…sotto l’effetto del vino.

Resta tuttavia che per Noè, come per gli eroi e gli idolatri prediluviani, la decadenza non era che una delle possibilità della loro capacità inventiva: l’altra possibilità, quella del superamento e dell’ascesa era stata da essi trascurata o calpestata, ma continuava ad appartenere all’uomo e costituiva una delle sue potenzialità essenziali.

Nascita della noosfera

Nella città di Babele, cfr Abranavel, Dio intuisce proprio il passaggio all’atto di questa potenzialità. In questa città sono certo presenti tutte le ripercussioni catastrofiche della decadenza totalitaria, dell’abdicazione dell’uomo a favore della cosa. Ma è pur presente l’itinerario ascensionale che ha fatto accedere l’uomo dalla natura all’artificio e all’arte. In questo passo e in questo soltanto s’innesta l’intervento divino. La “profanazione” dei costruttori di Babele ha perlomeno condotto a questo passaggio meta-dimensionale che fa dell’uomo il padrone della natura e il suo modellatore e il suo artista. Ebbene “adesso, d’ora in poi” questo accesso rimane sempre irreversibilmente garantito all’uomo.

Ovunque d’ora in poi si avrà iniziativa umana, ovunque dove il genio umano inventivo precederà l’atto creatore, nulla resisterà davanti a questa iniziativa. L’homo artifex ha vinto. E questa vittoria gli è concessa da Dio. Sfumando Abranavel con T.d.Charden, si potrebbe affermare che, in questo versetto della Genesi, la noosfera ottiene da Dio le sue lettere patenti. Le frontiere della natura sono esplose. Il guscio rigido che l’inerzia uniforme delle cose poneva attorno all’uomo è spezzato.

Osserviamo che esso lo è solo sullo stretto piano dell’avere su cui gli stessi costruttori della città di Babele si erano posti: haba, dice Dio al v.7, e questo termine del possesso fa eco ai due identici termini dei vv. 3 e 4. Osserviamo ancora che l’intervento divino non si pone che sul piano della sapa. Infatti i due termini annunciati nel v.1 , – l’unità della sapa e la chiusura dei dabarim – solo il primo viene ripreso e trattato nella seconda anta del dittico del racconto. L’intervento divino non si concentra direttamente che su sapa. Tutto si svolge come se i dabarim fossero stati dimenticati, sepolti in qualche botola da dove qualche altro avvenimento diverso da quello dell’intervento divino dovrà emergere per farli risorgere. Certamente i dabarim restano sospesi, sprofondati nel sistema stesso di Babele di cui costituivano la chiave. Dio non tocca questa alienazione. E sarà necessario qualche altro per disigillare di dabarim, – per provocare l’esodo della – parola, la sua redenzione dal di dentro delle cose.

Prometeo e Nimrod: la parola attende il suo redentore

Così, ci sembra, si illustra la differenza tra l’episodio biblico della torre di Babele e il mito Prometeico cui spesso viene paragonato. Certo, nei 2 racconti noi assistiamo alla nascita del potere inventivo dell’uomo e alla sua contestazione da parte della potenza divina. Ma Prometeo è un individuo che scopre e utilizza la potenzialità interna del suo genio umano, mentre Nimrod e i suoi compagni costituiscono una società che cerca le norme al di fuori, nell’inerzia della materia di cui fa il suo modello. Prometeo erige a valore l’umanità del suo Io, mentre la generazione di Babele vede nell’uniformità della cosa il valore umano per eccellenza. L’avventura di Prometeo è una rivolta; quella di Babele un patto con la materia ribelle. La rivolta di Prometeo si nutre delle proprie iniziative; quella di Babele dipende dalla resistenza del mondo fisico in cui si è chiusa.

Prometeo offre la sua rivolta in un gesto altruistico; gli uomini di Babele si trincerano nell’egoismo indifferente del loro mondo chiuso perché, simile a una violenta corrente d’aria in un recipiente chiuso, la parola dei regni esterni mettesse lo scompiglio e ingarbugliasse il sistema mandandolo in rovina. Nessuna parola era + d’ora in poi, intellegibile, perché di fronte al sì impersonale umano si ergeva di nuovo l’uomo nella sua alterità irriducibile. La confusione delle lingue riapriva le parole a significati diversificati. La parola si staccava, si scollava dalla cosa. Ma non aveva trovato ancora alcun punto d’appoggio, nessun zampillo nell’uomo stesso. Dio, a Babele, era intervenuto solo nell’attesa di un Prometeo pronto a reinventare un dabar che fosse interamente umano per due ragioni simultanee: perché questo dabar, pur designando anche la cosa, non si confondesse esclusivamente con essa: e perché questo dabar, pur sapendosi in comunicazione con Dio, non abdicasse in nulla alla sua origine umana. Un dabar liberato insomma, ecco il compito per cui si rendeva necessaria la comparsa di un Prometeo che creasse questo dabar, con un’iniziativa di assoluta libertà umana.

Questo Prometeo sarà Abramo. Poiché di tutte le cose che Abramo ha fatto passare sull’altra sponda, non ce n’è una che non è stata fin qui analizzata: ed essa è la cosa stessa, il Dabar. Abramo ha dissigillato i debarim chiusi: ha provocato l’esodo della parola e la sua redenzione.

Abramo è l’inventore della Parola.